Da edizioni La Terza
V.2.1. La «creatione del duca Alfonso II», il 26 novembre 1559
Quando
Ercole II quarto duca di Ferrara, Modena e Reggio morì
improvvisamente, il 3 ottobre 1559, suo figlio Alfonso si
trovava alla corte di Francia. Subito, il principe ereditario
inviò a Ferrara il compagno Cornelio Bentivoglio a preparare la
successione, accingendosi dal canto suo a un lungo viaggio di
ritorno in pompa magna; nel frattempo, nell’antica capitale
degli Estensi il cadavere del padre veniva imbalsamato in vista
di un doppio funerale ispirato agli usi in voga presso i
monarchi francesi – un’imponente cerimonia funebre volta a
ostentare tutta la magnificenza e l’autorità sovrana della
dinastia112.
Alfonso arrivò a Ferrara il 20 novembre; per alcuni giorni
rimase ritirato, senza farsi vedere in pubblico sinché i
preparativi per le due cerimonie – la sua intronizzazione e il
funerale del padre – fossero terminati; il 25 liberò di prigione
lo zio, don Giulio d’Este, incarcerato oltre mezzo secolo prima.
Alfonso I° d'Este
E il 26 novembre, infine,
partecipò al rito che sanciva formalmente la successione al
trono di Ferrara: fu uno spettacolo così magnifico da colpire
profondamente l’immaginazione dei contemporanei, che ce ne hanno
tramandato diverse descrizioni straordinariamente dettagliate.
È stato detto che in
Antico Regime una processione cittadina costituiva «una
petizione di principio dispiegata per le strade, con la quale
una città si rappresentava a se stessa» nell’intento di
esprimere in modo manifesto ciò che altrimenti nella vita
quotidiana rimaneva implicito e confuso – «l’essenza della
società, le sue più importanti qualités e dignités».
Non necessariamente una ‘copia in miniatura’ della realtà,
dunque, né una riproduzione mimetica dell’esistente: al
contrario, i cortei trionfali che animavano le feste civili e
religiose dell’Antico Regime erano piuttosto strumenti di
comunicazione politica, e come tali – frutto di operazioni
intrinsecamente programmatiche – venivano sfruttati per
demarcare e ridefinire i confini del corpo comunitario, se non
per imporre visivamente agli spettatori modelli politici e
sociali potenzialmente innovativi rispetto allo status quo.
In questa prospettiva può essere interessante ripercorrere
brevemente lo svolgimento della cerimonia del 26 novembre,
tentando di decifrare quali rapporti di potere vi fossero
sottesi, quali strutture istituzionali vi si rispecchiassero,
quali equilibri sociali e politici vi cercassero legittimazione
– implicitamente ai nostri occhi, ma in modo assai esplicito per
gli osservatori coevi.
La mattina presto «a bonissima
hora» Alfonso uscì «secretamente» dal Castelvecchio e andò nella
delizia di Belvedere, «luogo preparato fuori di Ferrara dove
haveva a assumere le insegne et li ornamenti del ducato: qui il
giovane principe venne rivestito con abiti sontuosi e rimase ad
attendere, circondato dai «personaggi dello Stato e della
corte». Di lì a poco, mentre le campane suonavano a martello e
un migliaio di soldati si disponevano in ordine di parata sulla
via che collegava Ferrara alla delizia ducale, il giudice dei
Savi Galeazzo Tassoni riunì il consiglio comunale e «altri
gentilhuomeni et cittadini» in gran numero, tenendo loro una
breve orazione in cui ricordava «come era necessario alla
Republica di Ferrara haver un capo et un Signore», proponendo di
andare da Alfonso «ad offerirli il ducato di Ferrara et farlo
suo Signor et duca con le molte et degne, belle et consuete
cerimonie». Finita l’orazione, attorniato dai membri più
illustri della nobiltà ferrarese, Galeazzo Tassoni montò a
cavallo «con lo scettro in mano da dare al novo Signore et duca»
e si diresse con gli altri alla volta di Belvedere, seguito da
paggi, giovani rampolli di buona famiglia, religiosi e una
«plebe d’huomeni et donne confusamente». Giunti a Belvedere, il
giudice dei Savi e gli altri gentiluomini si presentarono al
duca e l’adororno facendoli una breve oratione, come l’havevano
eletto per loro legittimo Signore et duca, et lo pregorono se
dignasse pigliare l’assunto del regere, custodire et defensare
il populo, il Stato et il ducato di Ferrara. Et così havendo lui
accettato il tutto giurò giustitia, et il signor conte Galleazzo
Tassone giudice delli XII Savii, rapresentante il populo di
Ferrara, gli giurò fedeltà.
A questo punto la comitiva si
rimise in marcia per rientrare in città, disponendosi
nell’ordine seguente: di fronte a tutti «cento putti coronati di
lauro e di fiori di seta», che «gridavano: “Alfonso, Alfonso,
duca, duca!”», seguiti da «otto pifferi vestiti alla pastorale
che sonavano»; veniva poi un gran numero di armigeri, paggi e
trombettieri vestiti con la livrea di Alfonso; dietro a loro
procedevano «tutti i feudatarii e i gentilhuomini, che erano da
circa mille, tutti con veste e con fodre honoratissime, sopra
bellissimi cavalli mirabilmente ornati»; quindi il duca,
scortato dai principali dignitari di corte e da una guardia di
svizzeri e lanzichenecchi. Il principe era seguito da altri «gentilhuomeni
della terra et forestieri», dai membri dei collegi professionali
cittadini, da un folto gruppo di uomini d’arme e infine dalla
massa della «plebaia minuta, qual cridava: “Duca, duca! Viva il
duca Alfonso!”». In posizione onorevole, vicino ad Alfonso,
incedevano «i vescovi e magistrati», «gli imbasciatori di Modena
et di Reggio et di tutto il Stato», i più importanti officiali
del ducato: il podestà di Ferrara, i consiglieri di segnatura e
di giustizia, i segretari e i fattori generali.
Quando la comitiva giunse di
fronte alle porte della città, al duca si fecero incontro «cento
giovani buoni cittadini della terra» che presero il baldacchino
sotto cui cavalcava; lo strepito delle artiglierie, delle
trombe, dei tamburi e dei pifferi, le urla di gioia della
popolazione erano tali che per un attimo il giovane principe fu
travolto dalla commozione: come poterono notare tutti i
presenti, gli «si intenerì il cuore [...] et fu veduto
lachrimare». Accolto dal clero e dai massari delle Arti «co’
loro confaloni», il corteo prese a snodarsi per la città
seguendo un lungo itinerario scandito da una decina di archi di
trionfo, adorni di «statue grande come un huomo et vaghe
depinture» allegoriche, con colonne, capitelli e iscrizioni
latine. Dalla porta di Castel Tedaldo, la processione si diresse
verso il palazzo del conte Alvarotti, davanti al quale si ergeva
un primo arco di trionfo istoriato di immagini e figure, su cui
campeggiava un fregio che lo dichiarava offerto dalla nobiltà
ferrarese in omaggio alla liberalità di Alfonso; da qui si
giungeva al palazzo di Cornelio Bentivoglio, intorno al quale
sorgevano le statue delle quattro Virtù cardinali e di un
gigantesco cavallo («Pallade e Mercurio insieme il teneano per
la briglia con littere al pie’ che significavano che questo
corsiero fu sempre conservato senza che alcuno il salisse,
infino a tanto che era venuto un principe degno di possederlo»).
Passando per il sagrato di San Domenico si giungeva quindi al
Monte di Pietà e al palazzo dei Cati, dinanzi al quale si
trovava l’arco successivo, «fatto» dagli ebrei e decorato di «depinture
et armi ducale», con motti – «in hebreo scritti et in latino
dechiarati» – che inneggiavano alla letizia e al senso di
sicurezza di cui le virtù ducali erano promessa e garanzia. Di
qui il corteo scendeva verso il luogo dove si riscuotevano le
gabelle, dirimpetto a cui era stato innalzato un altro arco per
iniziativa dei mercanti cittadini che intendevano così celebrare
la pace portata dalla liberalità e dalla religione del principe.
Si proseguiva per la via di San Paolo, svoltando per la via
Grande e giungendo «insino al banco degli ebrei dei Carri», da
dove ci si dirigeva verso il palazzo del conte Galeazzo Tassoni
(il giudice dei Savi), di fronte al quale si ergeva l’arco
seguente, sovrastato e attorniato da statue di divinità romane,
adorno di «molti motti et pitture, et verdure et armi ducali,
del commune di Ferrara, del detto signor conte Galeazzo Tassone»;
sul timpano principale un’iscrizione dichiarava che l’arco era
stato offerto ad Alfonso, salutato padre della patria, dal «senatus
populusque Ferrariensis». Il corteo proseguiva per le vie
principali della città vecchia, giungendo alla chiesa di San
Francesco, dove si trovavano altri tre archi eretti dagli ebrei
cittadini della nazione portoghese: sul «frontespicio» dell’arco
centrale «erano depinte l’aquile della Casa da Este con motto
che diceva: “Sub umbra alarum tuarum protege nos”». Ai due lati
erano raffigurate la Pace e l’Abbondanza, mentre sotto le
colonne che collegavano gli archi si poteva leggere: «Dux
prudens stabilimentum est populi inexpugnabile munimentum amor
civium». Da San Francesco il corteo svoltava verso la Giovecca,
percorrendola fino al Castello, dove si trovava l’ultimo arco di
trionfo, in cui una serie di statue romane celebravano le virtù
militari e personali di Alfonso, che lo avevano reso «verus hero
temporis» e «aviti regni dominus propria virtute»; di qui infine
si arrivava alla piazza del duomo.
Giunti al sagrato della
cattedrale, i rampolli della nobiltà cittadina si diedero a
stracciare il baldacchino del principe contendendosene il
destriero – pallido ricordo dei saccheggi rituali che si
svolgevano nei giorni di interregno fra la morte di un sovrano e
l’intronizzazione del successore, rito di passaggio che segnava
la legittima presa di possesso della città da parte del Signore.
Nel frattempo, Alfonso entrò in chiesa, dove si assise su un
trono posto a destra dell’altare;
quindi il vescovo Giulio Tombesi
celebrò una messa solenne e cantata. Terminata la funzione, il novello duca tornò
in Castello e dietro di lui «furno levati i ponti et tutti i
cittadini et parte de’ gentilhuomeni et tutto il populo minuto
andorono alle sue case, et con il signor duca restorono i
gentilhuomeni della corte et alcuni altri appartati signori et
gentilhuomeni
----ooo---